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I mondi poetici di Elizabeth Aro al Filatoio di Caraglio

Sarà visitabile fino al 6 gennaio 2019 Le fil du monde. Migrazioni e identità nell’opera di Elizabeth Aro, a cura di Elena Inchingolo e Paola Stroppiana, ospitata nelle splendide sale del Filatoio di Caraglio.

Il progetto espositivo di Elizabeth Aro (nata a Buenos Aires ma trasferitasi prima a Madrid e quindi a Milano, dove oggi risiede) si inserisce con lucida coerenza nel progetto MigrACTION, cofinanziato dall’Unione Europea nell’ambito del Programma di Cooperazione Territoriale Transfrontaliera, che ha come obiettivo la valorizzazione e l’implementazione turistica della via dei migranti che collega Caraglio a Barcelonnette nella valle francese dell’Ubaye attraverso Vinadio e Paraloup, in Valle Stura, tragitto percorso dai piemontesi che emigravano in Francia tra il 1870 e il 1950 circa.

Elizabeth Aro, Mundo

L’artista è da sempre sensibile al tema dell’ “altro”, visto con la sensibilità di chi, in prima persona, appartiene a due culture diverse e ha affrontato una “migrazione”, fisica e culturale. Elizabeth si accosta con delicatezza e al tempo stesso incisività al tema cardine del progetto, la migrazione dei popoli e le sue complessità, sia nel recupero della memoria che nell’interpretare le nuove sfide del presente. Nel farlo si misura con media differenti, con una particolare predilezione per la scultura, realizzata in tessuto che ella stessa cuce, modella e ricama, spesso dilatata sino a dimensioni installative e ambientali, che dialogano proficuamente con l’architettura che la ospita. La tessitura porta con sé un linguaggio non verbale, carico della forza espressiva e rituale di cui, da sempre, si fa portatrice: il ricamo è stato uno dei primi codici espressivi dell’uomo e come tale Elizabeth lo considera, riproponendolo con le visioni del contemporaneo a lei più prossime e che hanno formato il suo bagaglio culturale, dall’icasticità delle culture precolombiane all’impermanenza dell’arte gestuale. La ricerca del sé, di un posto nel mondo (anche se in precario equilibrio) e l’integrazione tra gli individui provenienti da latitudini e culture trovano compiuta espressione non solo attraverso la scultura in tessuto, ma anche grazie ad un importante ciclo di fotografie di grandi dimensioni dal titolo Los Otros, realizzato nel 2004.

Elizabeth Aro, Los otros

Le persone raffigurate nelle fotografie – già esposte al Reina Sofia di Madrid –  provengono sia da aree di lingua spagnola (Bilbao, Colombia, Porto Rico, Costa Rica) sia da altri paesi, Portogallo, Corea, Israele, Capo Verde. Emerge dal nero profondo, con rimandi evidenti alle figure dolenti del Caravaggio, “un altro” incredibilmente vicino, meno straniero, parte di un unico Mundo, titolo di un’altra opera in mostra, l’emblematico globo che oscilla dall’alto del soffitto. Elizabeth lo ha realizzato in feltro, caldo, avvolgente, ma con i continenti che scivolano verso il Sud del mondo, da sempre percepito come un luogo altro, se non “Terzo”, più difficile da comprendere e raggiungere. Un mondo con nuove mappe che sono create da nuovi flussi migratori, geografie che cambiano con il mutare dell’evoluzione umana. Confini più mentali che fisici (si pensi al Filo Spinato che Elizabeth traduce in morbido velluto, azzerandone l’aggressività e la respingenza o la grande rete in rosso tessuto – Red Net – che parla delle relazioni emotive che ogni volta si intrecciano, incessanti e necessarie), in continuo mutamento, come l’azione che l’attualità stessa chiede al nostro occhio occidentale: mutare il nostro sguardo, la nostra prospettiva per un presente consapevole del proprio passato, strumento essenziale per affrontare il futuro e le sfide che quest’ultimo ci presenta quotidianamente,  con urgente evidenza.

Elizabeth Aro, Filo spinato

“Realizzo oggetti anamorfici che prendono forma soltanto quando, montati in una mostra, si collocano nella transizione da privato a pubblico” – sostiene l’artista. “[…] Le nove opere con cui lo spettatore entra in dialogo lungo il percorso espositivo evocano quindi anche l’esperienza di vita dell’artista, a partire dall’installazione Ulivi (2016-2018) – realizzata in occasione della mostra – in cui due alberi d’ulivo in tessuto, uno in broccato bianco e l’altro in velluto nero, si fronteggiano. Si tratta di un confronto tra opposti, in cui si pone in evidenza la crescita dell’uno grazie alla presenza dell’altro. L’albero è il simbolo del ciclo vitale e connette la terra al cielo, l’essere materiale e quello spirituale ed è proprio nel rappresentare l’ulivo, sacro ad Atena, dea greca della ragione e delle arti, che l’opera si carica di un ulteriore senso di pace ed equilibrio.

Elizabeth Aro, Ulivi

Nell’opera Santa Sangre (2009) – Santo Sangue – 18 elementi di broccato di velluto, di 9 metri ciascuno, sono assemblati a formare un flusso arterioso, metafora dell’energia che pervade ciascun essere vivente. Qui è evocata anche la simbologia liturgica del sangue che diventa divino – l’opera nel 2015 è stata installata all’interno della chiesa consacrata Moritzkirche di Augsburg in Germania – in un rito sontuoso e viscerale, lo stesso che l’artista vive nel suo rapporto simbiotico con l’arte.

Elizabeth Aro, Santa Sangre

Con Il libro dell’architetto (2003) – installata nello spazio angusto della torretta in facciata del Filatoio –  l’artista lavora con lo spazio della mente che si confronta con la pagina di un libro. Si tratta infatti di un’opera intimista, composta da una copertina in cartone e 5 fogli di tessuto, su cui l’artista ha ricamato la piantina di alcuni edifici realizzati da architetti noti, per lei significativi. Qui il ricamo, attività legata alla sfera femminile descrive architetture e ambienti realizzati o solo progettati, nella cultura occidentale spesso ascrivibili ad un ambito dichiaratamente maschile. L’essere femminile e maschile si uniscono in un’operazione sincretica fatta di entrambe le nature: attraverso il ricamo, lo spazio descritto in piantina risulta maggiormente abitabile e armonico, più intimo. Progettare una casa, è inventare un percorso e costruire con la mente gli spazi da abitare. Immaginare il senso del luogo in cui si vuole vivere. “Per un architetto progettare significa capire la relazione tra i diversi spazi, per me”- sostiene l’artista – “ricamare l’architettura è percorrere uno spazio vissuto, ovvero accompagnare con passi lenti e meccanici il trascorrere del tempo”

Elizaberth Aro, All Fires, the fire

Duplice è la fonte d’ispirazione letteraria che ha guidato l’artista nel realizzare All Fires, the Fire (2011) – Tutti I fuochi, il fuoco – l’opera che s’incontra proseguendo il percorso di mostra. Il titolo rimanda alla raccolta di racconti brevi dello scrittore argentino Julio Cortázar e ad un brano ripreso da Il Libro degli Abbracci dell’autore uruguayano Eduardo Galeano. Piccole fiamme di velluto rosso sembrano crepitare, sospese a mezz’aria. Si tratta dell’energia interiore, che è in ciascuno di noi e ci rende simili, nonostante le diversità. Come scriveva lo stesso Galeano: “Il mondo è quello, un sacco di gente, un mare di fiamme. Ogni persona brilla di luce propria tra tutte le altre. Non ci sono due fiamme uguali. Ci sono grandi incendi e piccole fiamme e fiamme di tutti i colori […]”Con Ala di seta (2012) l’artista sceglie la metafora della libertà, per far intravedere il desiderio di un volo, che l’uomo compie con una sola ala, bianca, dalle piume di seta. Aro la presenta appoggiata ad una base di legno, alludendo da una parte allo spazio domestico, dall’altra all’idea di monumento. Nonostante il mondo odierno sia caratterizzato da una grande precarietà e da forti individualismi – evidenti nella singolarità dell’ala che racconta una perdita –  l’artista sollecita a far alzare in volo la nostra anima verso altri luoghi.

Elizabeth Aro, Ala di Seta

Sottolinea nel catalogo che accompagna la mostra Andreina Galleani D’Agliano, consigliere culturale della Fondazione Filatoio Rosso di Caraglio: “[…] Il filo che unisce è un linguaggio delle mani e delle idee, che si fa creazione tangibile e che fonde le voci degli gli artigiani  che attraversando  le Alpi hanno portato dal Piemonte alla Francia il noto organzino o i canti delle  operaie che filavano per ore intere, le abili mani consumate  dall’acqua bollente da cui estraevano i bozzoli,  il dorso chino. Elizabeth Aro interpreta nelle sue opere  parole, speranze e angosce di tutti coloro che, abbandonando il loro paese di origine, ricominciano da capo, esattamente come le famiglie  che dalla Francia migravano verso l’Italia  installandosi nelle valli del cuneese, dove hanno lasciato tracce e cultura che oggi si raccolgono come un unico filo nel Filatoio di Caraglio che  da sempre è, con la sua memoria  artigiana e  industriale, testimonianza di memoria collettiva. Il filo non solo è ciò che unisce, che collega e che dà modo alla cultura tessile e artistica di evolvere, di prender forma  e di rinnovarsi. Proprio come i tessutai francesi che emigravano in America o i semai piemontesi che andarono in Giappone  o come tutti coloro, che, oggi, lasciano il loro mondo per ricominciare. Ma non iniziano da zero. Portano con sé un patrimonio di cultura ed esperienza che, aggiungendosi a quella del luogo che li accoglie o semplicemente li ospita, cominciano un percorso nuovo arricchito dalla diversità e nella diversità. E questa è la storia dell’umanità, la nostra, che si snoda lungo un filo sottile eppure resistente e prezioso come quello della seta […]”.

Per info

Fondazione Filatoio Rosso di Caraglio

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