Roberto Pinto, Nuove geografie artistiche. Le mostre al tempo della globalizzazione, postmedia books, 2012
Cambiamenti del panorama espositivo internazionale e soluzioni per l’arte globale nel saggio di Roberto Pinto
Attraverso un lento processo di assimilazione, i concetti di etnicità e identità hanno assunto nuovi significati. Le mostre ne hanno tracciato il cammino, tra approcci multiculturali ed interdisciplinarietà: è l’analisi che Roberto Pinto ci propone nel saggio edito da postmedia books
Mentre le grandi esposizioni occidentali hanno aperto le proprie sale ad ambiti geografici prima ignorati dal sistema ufficiale, le fiere d’arte hanno cominciato a dislocarsi. Città slacciate dai grandi circuiti economici hanno iniziato a rappresentare punti di incontro e di innovazione, come le Biennali di Istanbul, di Johannessburg e di Gwangju in Corea del Sud. La commercializzazione e la diffusione dell’arte più recente possono essere lette, in questo senso, come risultati di un lento lavoro di globalizzazione, in cui un nuovo concetto di identità è alla base di un approccio politico e interrelazionale. Gravitando intorno alle più significative linee evolutive di uno scenario in continua trasformazione, Roberto Pinto delinea una storiografia ragionata delle principali esposizioni recenti, scegliendone alcune come chiave di lettura privilegiata del cambiamento. Centralità dell’incontro e arricchimento in termini di acquisizione di valori e di storie sono gli argomenti portanti di questa operazione editoriale. La trattazione, ampliata di apparati e schede tecniche, spazia dalla vocazione internazionale caratterizzante Documenta a partire dalle prime edizioni, passando da Aperto 93 della 45esima Biennale di Venezia, per approdare ad una messa in discussione dei valori di etnicità e potere coercitivo dell’arte.
Con la mostra Magiciens de la Terre, curata nel 1989 da Jean-Hubert Martin al Centre Georges Pompidou di Parigi, si inaugurava un’epoca di fascinazione per le culture non occidentali. L’evento poteva essere considerato il momento iniziale del processo di assorbimento delle periferie artistiche da parte del mainstream. Mirando all’inserimento immediato di nuovi modelli stilistici e iconografici all’interno degli schemi della comunicazione, un tale progetto poteva lanciare una serie di opere già pronte per una diffusione rapida e capillare. L’affermazione della necessità di un dialogo intrecciato tra culture diverse si accompagnava alla maturata consapevolezza politica di una società complessa e articolata. Autori allora emergenti come Yong Ping Huang, Alfredo Jaar e Tatsuo Miyajima dialogavano con figure di rilievo: Marina Abramovic, Louise Bourgeouis e Anselm Kiefer. L’analisi di un cambiamento portatore di innovazioni tralasciava ogni intenzione di costruire, antropologicamente, una mappatura internazionale. La mostra rimaneva, al contrario, una piattaforma di confronto tra singole opere, senza mai aspirare ad illustrare una cultura attraverso lavori individuali.
L’altro importante polo interpretativo dell’analisi di Roberto Pinto è rappresentato da How Latitudes become Forms, curata nel 2003 da Philippe Vergne presso il Walker Art Center di Minneapolis. Il titolo della collettiva riecheggiava la celebre formula When Attitudes become Forms di Harald Szeemann. Dai comportamenti che avevano informato la svolta più significativa del Novecento, ci si rivolgeva ora alla complessa dinamica tra distanza e simultaneità della fruizione artistica. La mostra proponeva un’indagine delle modalità in cui progetti affini potessero rivelarsi differenti a seconda di situazioni ambientali profondamente lontane tra loro. Inedite ipotesi di narrazioni non lineari venivano sperimentate. I giovani autori Guillermo Calzadilla, Can Altay, Moshewka Langa, Robin Rhode affrontavano il tema dell’identità culturale e delle relazioni tra popoli attraverso un’ampia gamma di tecniche rivitalizzate da performance, interventi estemporanei, ricorso a insoliti meccanismi di riproduzione. L’atteggiamento multidisciplinare si affiancava spontaneamente all’approccio multiculturale. Da quest’idea di condivisione nasceva la consapevolezza della possibile traduzione infinita di un’esperienza attraverso l’utilizzo di ogni tipo di canale.