Sarà visitabile fino al 28 luglio presso PRIVATEVIEW gallery la prima personale italiana dell’artista statunitense Adam Winner, che ha realizzato le opere in mostra nel corso della residenza d’artista organizzata dai galleristi, Silvia Borella e Mauro Piredda, non nuovi alla formula residenza + mostra, già sperimentata con successo in passato.
Mai come questa volta l’esperimento è stato ardito: prendi un giovane artista americano silenzioso e riflessivo, seppur abituato ai ritmi di New York, catapultalo a Maretto, nella campagna astigiana più recondita, per 5 settimane con a disposizione un grande studio dove dare sfogo alla propria creatività nel quasi totale isolamento, novello monaco medioevale. Il risultato (193 ore dedicate al lavoro, come recita ironicamente il titolo) è ora tutto da ammirare nella elegante esposizione che con gusto sofisticato e ottimo senso per il ritmo lo stesso artista ha realizzato per le ampie sale della galleria.
Adam Winner (nato nel 1979, vive e lavora a Brooklyn) sembra dunque essere uscito indenne dalla parentesi bucolica ma non certo riposato, poiché ha prodotto molto e le sue opere, poste sul sottile margine di confine tra pittura e scultura, richiedono un processo creativo complesso e faticoso, fatto di attese, manipolazione creativa che prevede l’esterooflessione tridimensionale del supporto, continue sperimentazioni in termini dimensionali e materici. Le sue composizioni sono ispirate da un indubbio amore per il minimalismo e l’astrattismo americano che affonda le radici nello studio delle correnti europee di primo Novecento.
Lo abbiamo incontrato nel retiro di Maretto, in una domenica assolata. Un americano a Maretto: più che astrattismo, una dimensione surreale.
Quali sono stati i tuoi inizi?
Sin dalla mia infanzia ho avuto uno spiccato interesse nel disegno, ho frequentato scuole specifiche e mi sono laureato in pittura all’università di Syracuse, New York. Ho sempre avuto la passione per la pittura, ma all’inizio non avevo ancora sviluppato una precisa predilezione per un soggetto piuttosto che un altro, passavo dal figurativo all’astratto alla natura morta…Per due anni ho dipinto di tutto, poi ho deciso di fermarmi, di darmi un progetto unico, costringendomi a misurarmi su una dimensione di tela precisa, quasi come una “sezione aurea”, bidimensionale, sulla quale operare molte variazioni sul tema. Perseguivo l’astrazione geometrica seguendo sempre le medesime regole: usavo molto colore, una vasta scala cromatica. Il tempo è passato, ho avuto alcune mostre personali, quindi sono passato a ridurre la gamma arrivando ad usare quasi solo i colori primari, il carminio, l’ocra, il blu, con limitate connessioni tra essi…Cercavo di realizzare pitture non tradizionali con strumenti e modalità assolutamente classiche.
Sei stato influenzato in questa direzione dal Costruttivismo?
Posso dire di essere arrivato a conclusioni non lontane da quelle del Costruttivismo e del Suprematismo in termini di linearità formale ed estetica, ma ho cercato una mia via personale attraverso una specifica scelta di materiale e di cromia. In particolare il materiale che utilizzo è una tela di lino grezza che ha una sua risposta ai materiali con la quale la tratto: si restringe significativamente con l’acqua e i colori, può indurirsi e ottenere una sua specifica volumetria. Anche in questo caso il materiale diventa un mezzo e non un fine, anche se talvolta il mio progetto inziale cambia proprio in base a come si modifica il materiale stesso.
Parti da disegni preparatori? Qual è il tuo processo creativo?
C’è molta matematica nel considerare le riduzioni della tela a contatto con i materiali (ride)… Sulla tela infatti, che preparo con le mie mani e ritaglio in piccole sezioni che applico come tessere disposte geometricamente (a scacchi o a serpentina), lavoro con un composto bianco a base acrilica che indurisce la tela e, al contempo, se data a più mani, crea uno spessore che può essere più o meno modulato in altezza e lavorato mentre è ancora umido. Inevitabilmente questi lavori da bidimensionali acquistano una tridimensionalità. Lavoro usualmente su una certo numero di formati che tornano spesso nei mie lavori, basandomi sul quadrato e sul rettangolo che spesso decostruisco per cambiare prospettiva e percezione. Talvolta esco da questi canoni facendo riferimento ad altre misure precise, come la mia altezza (1, 95 m), o la misura della mia testa, per la quale ho realizzato un’opera scultorea a scatola delle sue esatte dimensioni: una sorta di autoritratto! Per quanto riguarda la composizione cromatica i colori che utilizzo rimangono come nascosti dai diversi strati; in superficie prediligo una scelta monocromatica, ma tra le righe delle diverse sezioni delle garze puoi intravedere una ricca varietà di rossi e gialli che conferiscono profondità e vibrazione. Tra l’altro non uso mai la contrapposizione bianco-nero: il colore scuro che utilizzo è una profonda varietà blu, perché anche in questo caso desidero mantenere una vibrazione percettiva ad uno sguardo più prolungato.
Sono tutti lavori astratti o per alcuni di essi hai pensato ad una narrazione, pur nel loro geometrismo?
Alcune in realtà sono opere molto personali, come quelle che prendono spunti dalle mie proporzioni, altre sono più formali e neutre. Talvolta inserisco titoli, anche se spesso inserire titoli può essere pericoloso perché può indicare in maniera troppo precisa il significato di un’opera.
Come hai organizzato il tuo lavoro qui, ben 5 settimane qui a Maretto, nella campagna astigiana?
Cinque settimane non sono poi molte per realizzare opere di grande formato, sono partito da un’opera che piaceva molto a Silvia e che ho riprodotto qui in studio (quella del manifesto della mostra nd.r.): preparo la tela e lascio asciugare verso il basso, in modo tale che la gravità influisca sul movimento scultoreo, che rimane come sospeso nello spazio: la resa è spesso un movimento naturale che pare fluttuare ad onde.
Quando hai deciso che un’opera è terminata? In teoria potresti procedere con un numero potenzialmente infinito di sovrapposizioni…
Questa è un’ottima domanda, diciamo che è l’opera stessa che determina un punto di non ritorno oltre al quale non si può più andare per la densità del materiale che si utilizza, che altrimenti collasserebbe. I lavori ovviamente sono tutti pezzi unici perché realizzati a mano, ma naturalmente creo opere simili tra loro, serie più complesse in cui inserisco il concetto di ripetizione. Come ho già detto, molti lavori nascono da ragioni introspettive, psicologiche, che rispecchiamo la mia percezione della realtà e dei volumi, persino del mio corpo, altri sono più formalmente concettuali. Alcune opere sono una giusta combinazione tra questi due aspetti, avendo come obbiettivo sempre l’eleganza e la semplicità della composizione, che può apparire bidimensionale o tridimensionale, a seconda di come la si osservi: una questione percettiva personale e sempre diversa, vero oggetto della mia ricerca.
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