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Orhan Pamuk Credits Masumiyet-Muzesi_

Una vertigine museologica

Sino al 24 giugno Il Museo  Bagatti  Valsecchi di Milano ospita Amore, musei,  ispirazione Il  Museo dell’innocenza  di  Orhan  Pamuk a Milano, curata da  Lucia  Pini, conservatore del Museo, e  Laura  Lombardi, docente di Fenomenologia delle arti contemporanee all’Accademia di Belle Arti di Brera.

Orhan Pamuk Credits Masumiyet-Muzesi_

Concepita in stretta collaborazione con la Innocence  Foundation  e  il premio Nobel per la Letteratura Orhan Pamuk,  la  mostra si  avvale  dell’allestimento  dello  studio  Lissoni  Associati e  nasce  dalla  collaborazione  tra  il Museo  Bagatti  Valsecchi e  l’Accademia  di  Belle  Arti  di  Brera,  con  il  sostegno  di  Regione  Lombardia.

Il  Museo  dell’innocenza, che celebra la  storia  d’amore  di  Kemal  e  Füsun,  protagonisti  del  romanzo  omonimo  edito  in  Italia  da  Einaudi nel 2008, viene  inaugurato  nel  2012  a  Istanbul,  e  due  anni  dopo  gli  viene  conferito  l’European  Museum  of  the  Year  Award:  l’idea  alla  base  di  questo  Museo,  che  prende  corpo  contestualmente  al romanzo  omonimo,  è  quella  di  tradurre visivamente l’amore  di  Kemal  per  la  bella  cugina  Füsun  attraverso  una  serie  di  vetrine  – una  per  ogni  capitolo  del  libro  –  affollate  di  oggetti.

Vetrine Museo Bagatti Valsecchi_ Credits Mario Flandoli

Nel romanzo il protagonista Kemal, per lenire la mancanza del suo amore Füsun, inizia a collezionare oggetti, anche i più banali, i più semplici (da cui il senso più profondo di “innocenza”) che gli ricordano la sua storia, persino i mozziconi di sigaretta che Füsun ha fumato e lui ha religiosamente raccolto; nello sviluppo narrativo la collezione di questi oggetti prosegue e diventerà sempre di più un’ancora di salvezza per Kemal. Alla conclusione del libro il protagonista chiede all’autore di scrivere il catalogo del Museo che lui vuole fondare, esponendo gli oggetti della sua storia d’amore con Füsun.

Incontriamo le curatrici, che a due voci ci raccontano con dettagli inediti la vertiginosa operazione.

“Pamuk, sin dalla genesi del romanzo, programma l’apertura di un museo ad Istanbul con lo stesso nome. Le due operazioni sarebbero dovute uscire in contemporanea, ma il libro è uscito nel 2008, il museo solo nel 2012. Tuttavia rimangono fortemente complementari: a volte Pamuk cerca degli oggetti che imprimono un andamento al romanzo, a volte, viceversa, sono oggetti suggeriti dal romanzo stesso. Questa complementarietà è la vera forza del testo che non è solo un’incredibile operazione narrativa ma è anche una complessa operazione museologica”.

Dottoressa Pini, perché questo luogo?

Il Museo Bagatti Valsecchi è uno dei musei al mondo preferiti da Pamuk/Kemal e quindi l’autore per primo è stato particolarmente felice di questo nostro desiderio di ospitare il suo Museo: la mostra sul Museo dell’Innocenza era già stata ospitata a Oslo e a Londra, ma qui ha un particolare legame con lo scrittore, perché Pamuk in visita al Museo nel 2007 scrisse nel libro dei visitatori illustri “È la terza  volta  che  visito  questo  straordinario  museo.  Amo molto questa casa, l’idea  e  la  fantasia  che  si  celano  dietro  queste  mura,  mi hanno  influenzato  molto  per  il  romanzo  che  sto  scrivendo”.

Vetrine Museo Bagatti Valsecchi_ Credits Mario Flandoli

 

Pensare di inserire un museo in un museo come il Bagatti Valsecchi è un’operazione a scatola cinese particolarmente sofisticata: un museo nel museo che crea un raffinato cortocircuito. Entrambe le collezioni, dove convivono preziosità ma anche falsi storici, sono state ricreate, ricostruite a posteriori dai proprietari: una stessa filosofia che li lega in modo particolare, una vera e propria affinità elettiva.

Sì, entrambi raccontano di un tempo ricreato: non cogliere lo spunto di far incontrare questi due musei sarebbe stato un peccato, addirittura il protagonista del suo libro, Kemal, lo visita prima di morire. Lo stesso museo diventa una specie di installazione che fa parte del percorso della mostra come se fosse risignificato dalla presenza delle vetrine del Museo. Il Museo stesso è parte del Museo dell’Innocenza! Lo stesso concetto di falso e di autentico è un concetto con il quale Pamuk gioca moltissimo e certamente ci hanno giocato moltissimo i fratelli Bagatti Valsecchi: a questo proposito, mostro spesso una vetrina in cui viene esposta la bibita Meltem che nel romanzo è una bevanda che viene prodotta a imitazione di quelle occidentali. Nel Museo dell’Innocenza di Istanbul si vede non solo la bibita, ma anche la foto del cartellone pubblicitario, si ascolta il jingle pubblicitario, e tutta la finzione è talmente perfetta che siamo realmente indotti a credere che esista. All’inizio del libro la borsetta che Kamal compra per la fidanzata è un falso che lui crede autentico e come tale viene riportato al negozio, dove incontra Füsun.

Come in Pirandello l’intreccio tra piano narrativo e realtà crea una nuova dimensione, i personaggi hanno un loro mondo, convivono con oggetti che alla fine sono i medesimi della realtà dell’autore e del lettore: sono quindi gli oggetti il punto di contatto tra la finzione letteraria, la musealizzazione di essi e lo spettatore?

Questo è il vero punto di forza! Sono convinta che un’operazione come questa possa essere compresa e vissuta anche da persone che non hanno mai letto il romanzo; non volevamo rivolgerci solo ad un circolo ristretto di persone che conoscessero il testo. In realtà nel Museo dell’innocenza sono proprio gli oggetti ad avere un ruolo così importante e diventare accumulatori di storie, innescando dei meccanismi che ciascuno può sperimentare su di sé. Emblematica la vetrina dedicata alla morte del padre, che viene ritratto come svuotandone il comodino,  mostrandone  oggetti personali quali medicinali scaduti, l’orologio, piccoli appunti… Questi, che sono oggetti da nulla, innocenti tracce di vita, in realtà hanno una carica evocativa fortissima, una purezza del ricordo che tutti hanno sperimentato nella propria vita. Pure – prosegue Laura Lombardi – la finzione procede parallela: al centro della medesima vetrina c’è un bicchiere di raki, la bevanda turca, che l’autore illumina da dentro con una lampadina: una citazione da un film di Hitchcock, regista che Pamuk ama molto proprio per la cura maniacale verso gli oggetti. Pamuk usa codici di riferimento colti, dalla tradizione delle wunderkammer ai cabinet de curiosité, alla stessa tendenza degli artisti contemporanei di relazionarsi con la collezione come forma d’arte a partire da Christian Boltanski a Emilia e Ilya Kabakov, da Damien Hirst a Sophie Calle. Pamuk riconosce un debito verso le shadow boxes di Joseph Cornell, il grande surrealista americano. Gli stessi oggetti ritrovati rimandano agli object trouvé di Duchamp…è un’operazione molto colta, per nulla ingenua, che consente molti livelli di lettura, anche in questo caso scatole cinesi che si aprono una dentro l’altra.

Come si sviluppa la mostra?

Immagini e oggetti dalla forte capacità  evocativa raccontano  la  storia  dei  due  protagonisti,  facendo  affiorare  al  tempo  stesso  la  suggestiva  atmosfera  di  Istanbul  degli  anni  Settanta  e  Ottanta e sono disposti secondo precisi allestimenti nelle vetrine. Ogni vetrina è numerata con il numero del capitolo e da un titolo narrativo: qui al Museo Bagatti Valsecchi ci sono 29 vetrine mentre al Museo dell’Innocenza di Istanbul ce ne sono 82, tante quanti i capitoli del libro. Queste vetrine sono repliche di quelle di Istanbul, e anche questa è un’operazione molto contemporanea, non è l’oggetto fisico il depositario dell’autenticità ma il concetto di cui si fa portatore. Pamuk ha chiesto che la strutture fossero poste alle stessa altezza di quelle di Istanbul creando anche effetti stranianti poiché ci sono spazi volutamente lasciati vuoti che, pur denunciando un’assenza, aumentano la potenza icastica di alcuni oggetti. Una visione museografica, come enuncia nel suo Modesto manifesto per i musei, per cui i musei non devono essere celebrativi di una nazione ma possono raccontare la storia universale degli esseri umani attraverso le vicende personali. Da qui l’amore per le case museo.

Pamuk è stato coraggioso ad intraprendere un progetto così ambizioso, che è concluso o rimane aperto?

L’aspetto straordinario è che il museo viene costantemente implementato: di alcune vetrine Pamuk non è completamente soddisfatto per cui sono ancora parzialmente coperte da piccoli sipari: in questo caso la ricerca non è conclusa. Addirittura alcune vetrine hanno il sipario completamente abbassato e alcune sono realizzate in collaborazioni con artisti: una ad esempio sarà realizzata nel prossimo futuro con Grazia Toderi. Come le collezioni delle case museo, anche il Museo dell’Innocenza, che tra l’altro è la casa di Füsun (!) non è un museo statico, ma destinato ad essere accresciuto lungo tutta l’esistenza di chi l’ha ideato. Questo luogo ha addirittura innescato delle reazioni nei visitatori, persino oltre l’intenzione dell’autore. Nel Museo di Istanbul sotto le vetrine ci sono dei cassetti e i visitatori hanno incominciato a lasciarvi piccole cose personali che Pamuk accoglie con il pensiero che un giorno anche questi oggetti avranno una loro collocazione.

Dottoressa Lombardi, come è nata l’idea della mostra?

Insegno a Brera e avevo inserito il progetto di Pamuk nel mio corso sul collezionismo museale: abbiamo poi invitato l’autore per ricevere il Diploma Honoris Causa e in quell’occasione gli è stato dedicata una giornata di studi, introdotta da una splendida laudatio di Salvatore Settis. In seguito a questo evento abbiamo realizzato, a cura mia e di Massimiliano Rossi, il volume “Un sogno fatto a Milano” edito da Johan & Levi, che raccoglie saggi di diversi autori su Pamuk corredati da 150 immagini, per lo più provenienti dagli archivi privati dello  scrittore: un compendio molto importante per comprendere molti aspetti del rapporto tra l’autore e Milano e non solo. Così come  il  romanzo  Il  Museo  dell’Innocenza  e  il  Museo  di  Istanbul  sono  concepiti  simultaneamente  da  Orhan  Pamuk,  così  anche  la  mostra  Amore  musei,  ispirazione e  il  libro Un  sogno  fatto  a  Milano, sono  nati  come  progetto  congiunto,  pur  avendo  una  propria  vita  autonoma».

Prosegue Lucia Pini: “Sin da prima della pubblicazione del romanzo ci eravamo resi conto dell’amore per Pamuk per questo museo (è tornato qui tre volte) per la splendida collezione che era costituita da banali benché rinascimentali oggetti di uso quotidiano. Mi sono messa in contatto con Pamuk tramite la casa editrice Einaudi e Pamuk ha presentato qui nel 2009 l’edizione italiana del romanzo. Subito dopo l’apertura di Istanbul ho chiamato Pamuk che dirgli che dovevamo fare incontrare i nostri due musei, proposta a cui ha subito reagito con entusiasmo. Non è stato facile trovare le risorse economiche: ci siamo uniti a Brera e la Regione Lombardia (il Palazzo è di proprietà regionale) a cui va riconosciuta l’intelligenza degli interlocutori istituzionali che hanno compreso la portata dell’operazione, ci ha aiutato a concretizzare il progetto. Vorrei sottolineare l’ottimo allestimento della mostra realizzato della Studio Piero Lissoni, di grande intelligenza. Non era facile per uno studio così affermato e con un’identità forte recepire tutte le precise indicazioni che Pamuk ha fornito. Una partecipazione generosa perché lo studio ha compreso che l’impronta di Pamuk sarebbe stata particolarmente evidente e ha saputo accostarsi al suo progetto con elegante sobrietà”.

Come reagisce il pubblico?

I visitatori reagiscono con entusiasmo, grande curiosità. La mostra viene introdotta da una prima sala che spiega il rapporto tra i due musei e si conclude con un video realizzato da Francesca Molteni in cui Pamuk racconta il proprio progetto. E’ curioso come una delle riflessioni più interessanti da un punto di vista museologico arrivi da uno scrittore, che grazie a questa operazione si è riscoperto artista, tanto da affermare che allestire un museo è stato uno dei momenti più felici della sua vita.

Quali le vostre vetrine preferite?

Laura Lombardi: La vetrina che ha sullo sfondo la fotografia della banchina del Dolmabahçe: è concepita come il palco di un teatro e sulla scena ci sono oggetti posti in rapporto dimensionale surreale, un portacenere, un bicchiere col té, un pacchetto di sigarette, più grandi rispetto a una piccola auto, a un esile lampione. C’è anche la figurina di Füsun in lontananza (anche se lei non viene mai pienamente descritta). A proposito di questa bacheca, Pamuk afferma di essere interessato ai capricci della bellezza che nasce dal caso. Poi mi diverte quella con la localizzazione anatomica della sofferenza umana in cui si illustrano tutti gli organi coinvolti quando si soffre per amore

Lucia Pini: la vetrina che si intitola Le avrei chiesto di sposarmi: siamo nel bagno della casa di Füsun   e qui vediamo gli oggetti della famiglia Keskin, in mezzo ai quali riconosciamo il rossetto di Füsun, rosso, intenso, molto femminile, che nel romanzo verrà sottratto da Kemal: una vetrina che dice molto sulla potenza degli oggetti. Tutte le vetrine sono state allestite minuziosamente dai collaboratori di Pamuk in una settimana e alla fine perfezionate con la sua supervisione, con un’attenzione maniacale ai dettagli.

Museo Bagatti Valsecchi_Galleria delle Armi – Credits Mario Flandoli

Alessandra Pozza, responsabile dei Servizi Educativi del Museo, quali sono le iniziative didattiche per la mostra?

Come sempre nell’ambito dei servizi educativi cerchiamo di permettere la fruizione del museo secondo la propria età, competenze e capacità di ciascuno. Per Pamuk abbiamo usato il concetto della teca declinandolo nel progetto “La mia storia  in  una  scatola” , il  nuovo  laboratorio per  bambini che vanno dai 5 agli 11 anni. I ragazzi hanno la possibilità di creare la loro storia in una scatola in cartone in cui inserire tutto ciò che per loro hanno significato, portando oggetti anche da casa, più oggetti di uso comune che noi mettiamo a disposizione. Lo scopo è realizzare una storia personale che come nel Museo dell’Innocenza rimane aperta, e infatti i ragazzi la portano a casa per implementarla. Sulla storia del Museo Bagatti Valsecchi raccontiamo le vicende storiche della casa, che diventa un ottimo spunto narrativo, comparando la vita di oggi con le condizioni di vita di un tempo, operando anche una distinzione tra ‘500 (periodo di ispirazione) e ‘800, in cui è stata effettivamente realizzata. Organizziamo anche cacce al tesoro partendo dal soggetto degli animali, presenti come decoro in molti oggetti e arredi. Usiamo poi con grande successo i silent book, un testo di sole foto, destinato a tutti, persino a chi non sa ancora leggere, a chi non legge la nostra lingua, o i nostri caratteri: è composto da particolari ingranditi di molti oggetti presenti nel museo: uno stimolo ad osservare i moltissimi dettagli che compongono il museo stanza per stanza, perdendosi e ritrovandosi.

Per Info:

Museo Bagatti Valsecchi, Via Gesù, 5 Milano 

About Paola Stroppiana

Paola Stroppiana (Torino, 1974) è storica dell’arte, curatrice d’arte indipendente e organizzatrice di eventi. Si è laureata con lode in Storia dell’Arte Medioevale presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Torino, città dove ha gestito per più di dieci anni una galleria d'arte contemporanea. Collabora con diverse testate per cui scrive di arte e cultura. Si interessa a nuovi percorsi d’indagine come il gioiello d’artista e le ultime tendenze del collezionismo contemporaneo, argomenti sui quali ha tenuto conferenze presso l’Università degli Studi Aldo Moro di Bari, Il Museo Civico di Arte Antica e la Pinacoteca Agnelli di Torino, il Politecnico di Milano.

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