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Intervista all’artista orafo Giovanni Corvaja: alla ricerca del meraviglioso

Giovanni Corvaja (Padova, 1971), i cui gioielli sono nelle collezioni permanenti di musei come il Victoria and Albert Museum di Londra e il MET di New York, ha sfidato la materia sino a realizzare oggetti straordinari per tecnica e resa visiva, come il celebre Vello d’oro.

Giovanni Corvaja, dettaglio bracciale, oro platino, smalti

 

 

Alcuni gioielli, pur intesi come declinazione compiuta di opera d’arte, pari inter pares di pittura e scultura nel processo creativo, sono espressioni culturali e sociali del loro tempo; altri, per una combinazione di fattori, acquisiscono un valore assoluto intrinseco, un brillio di puro genio che permette di leggerli non solo come oggetti atemporali ma addirittura come anticipatori, portatori di un eterno “futuro”, poiché mantengono inalterata e costante la meraviglia della scoperta in chi li osserva per la prima volta. Una meraviglia che non include necessariamente, tra gli elementi di giudizio, la valutazione sull’indossabilità o fruizione: in questo caso il corpo, naturale spazio scenico del gioiello come ornamento in movimento, è solo il punto di partenza, quasi un pretesto per spingere oltre i limiti la “technè” di un manufatto che nasce con intenti decorativi e che di volta in volta può rappresentare il potere, la regalità, la bellezza, la magia, l’aspirazione alla perfezione, la simbiosi tra uomo e materia: oggetti come corone, scettri, collari ma anche coppe in vetro o ceramica, armi, tessuti, non hanno mai assolto realmente ad una funzione pratica, se non in sporadiche occasioni, proprio in forza di una preziosità che ne sublimava la funzione a simbolo, anche in forza di unicità esecutiva formale pressochè irripetibile e dal valore intrinseco difficile da quantificare. Non a caso è l’oro il materiale principe di questo tipo di manufatti, malleabile, duttile, raro e incorruttibile: desiderato dall’uomo di ogni tempo e latitudine, evocativo del sole nel giallo riverbero, termine di paragone e metafora anche linguistica di tutto ciò che è prezioso, persino divino, senza tempo.

Giovanni Corvaja ritratto nel suo studio di Todi

 

Proprio il Tempo – valore immateriale – diventa altra questione cruciale: per la quantità impiegata nella realizzazione pratica (spesso ai limiti dell’esercizio zen), per la  visione progettuale a lungo termine dell’artefice e infine come elemento cardine, memoria intrinseca della materia preziosa impiegata, l’oro, che ha in sé la storia del mondo: sono questi gli elementi essenziali per meglio comprendere Giovanni Corvaja, (Padova, 1971) artista orafo che, nel suo laboratorio di Todi, cuore medioevale dell’Umbria, realizza gioielli e in più generale manufatti (con strumenti da lui stesso costruiti!) che sottendono ad una ricerca dal respiro ampio e ambizioso.

Giovanni Corvaja, anello Vello d’Oro

 

Le sue opere, straordinarie, complesse, sfidanti il reale come l’incredibile Vello d’oro che trasforma il filo aureo – sempre più sottile – in soffice pelliccia, in tessuto a maglia su telaio o in nebulose vaporose e trasparenti, reticoli raffinatissimi quasi invisibili a occhio nudo, sono realizzate con centinaia e centinaia ore di lavoro. Opere che sono da leggersi, in un’ottica filosofica, più che come oggetti da indossare, come testimonianze fulgide di un possibile modo di vivere un’intera esistenza immersa nell’esperienza del proprio saper fare, unendo la sapienza tecnica all’uso della scienza, ma anche al senso per la poesia e al sogno che tende all’inarrivabile. L’afunzionalità di certe opere gli ha concesso una grande libertà in termini di fantasia e libertà creativa.

Un alchimista moderno, certo, come è spesso è stato definito osservando anche il suo mirabolante laboratorio, ma un alchimista consapevole (non stupisce che oltre alle competenze tecniche acquisite in ambito orafo abbia una formazione chimica, assorbita per tradizione familiare), per cui l’oro è strumento d’elezione e non fine. Un artista che trasforma l’invisibile in visibile e viceversa non grazie a fumose formule ma ad un lavoro cerebrale costante, ad abilità affinate da una pratica ininterrotta, un approccio sperimentativo eppur emozionale, sentito, umano nel senso più profondo.

 

Giovanni Corvaja, bracciale Vello d’Oro

I risultati, spille, pendenti, anelli, bracciali, manufatti che richiedono anche mesi per essere completati (e che conduce in parallelo) sono direttamente entrati in collezioni prestigiose e musei internazionali (tra gli altri il Victoria and Albert Museum, Londra,  Metropolitan Art Museum, New York, Musée des Art decoratifs, Parigi) proprio perché curatori, direttori dei musei, amatori d’arte hanno colto la straordinarietà atemporale ed empatica della ricerca di Corvaja, alfiere di un rinnovato umanesimo che parla all’uomo di ogni latitudine e tempo: passione e tecnica, forma e materia per un esito che trascende al sublime.

Abbiamo avuto la possibilità di rivolgergli alcune domande:

Giovanni, l’interesse per la materia è sempre stato cruciale per te, sin dalle tue prime scelte. Puoi ricordarci brevemente il tuo percorso formativo e quali sono stati i momenti nodali?

Provengo da una famiglia dedita, da generazioni, alle materie scientifiche: i miei genitori sono entrambi chimici e impegnati nell’insegnamento e nella ricerca; pur provenienti da altre città, si sono conosciuti a Padova proprio per motivi di studio: qui sono nato io e i miei fratelli. Da ragazzo ho compiuto gli studi di scuola media al conservatorio; nonostante il liceo scientifico fosse un po’ una strada obbligata per tradizione familiare, ho compreso dopo poco che il mio percorso era un altro, anche grazie ad un incontro fortuito con un mio amico che già frequentava l’Istituto d’Arte nella sezione di Oreficeria: ho scelto dunque di interrompere il liceo per scegliere questo nuovo percorso. C’è da dire che ero già affascinato dal mondo dei metalli, a 11 anni ho chiesto a Babbo Natale (in cui ancora credevo!) di regalarmi un kit di ossigeno e acetilene per la fusione dei metalli, in particolare l’argento, puntando ai cucchiaini spaiati o a piccoli oggetti in casa. I miei non mi hanno mai particolarmente incoraggiato, ma neanche osteggiato in questo mio interesse, spiegando il pericolo, piuttosto che vietarlo. La scelta dell’Istituto statale d’arte Pietro Selvatico ha cambiato completamente il mio destino perché ho avuto la fortuna di incontrare buoni maestri, anche di vita, che mi hanno aperto davvero possibilità nuove.

 

Giovanni Corvaja, spilla in oro e platino

 

 

Puoi parlarci di loro?

Il primo giorno ho incontrato Francesco Pavan, professore all’Istituto Selvatico: un maestro ed un uomo straordinario. Io sono piaciuto a lui, lui è piaciuto a me, si è instaurato tra noi un rapporto di stima reciproca e affetto. Mi ha aperto le porte del suo laboratorio: andavo a studiare da lui dopo la scuola, osservando il suo lavoro quotidiano. Il maestro Pavan non solo è un orafo eccezionale, ma si è rivelato anche una persona intellettualmente onesta, tanto da dirmi, ad un certo punto, che in tutta franchezza il mio apprendistato era terminato, avevo imparato tutto ciò che poteva insegnarmi: mi inviò quindi dal maestro Paolo Maurizio e iniziai a frequentare il suo laboratorio con assiduità; lo stesso maestro mi prendeva bonariamente in giro perché, previa telefonata, mi presentavo puntuale ogni giorno alle 17.00 tanto da poter regolare l’orologio sulla mia scampanellata! Di contro alle 21.30 chiamava mio padre in laboratorio per ricordarmi di tornare a casa. Alla fine dei cinque anni sono stati gli stessi Pavan e Maurizio a suggerirmi di seguire gli studi cercando nuove esperienze all’estero “se no diventi troppo padovano!”. Ho una riconoscenza immensa verso di loro, mi hanno accompagnato in un percorso formativo umano e professionale.

Giovanni Corvaja, spilla

 

E quindi dove sei approdato?

Sono stato ammesso al Royal College di Londra presentando alcuni gioielli che avevo realizzato nel mio laboratorio (una stanza ricavata nella cantina dei miei genitori!), nonostante non avessi l’età minima né la laurea. Sono rimasto due anni per il master; tornato a Padova mi hanno proposto di insegnare all’Istituto d’Arte ma Paolo Maurizio mi ha consigliato, anche per mia attitudine caratteriale, di proseguire con la mia ricerca. Il giorno del mio compleanno del 1992 ho iniziato la mia attività a Padova in società con Jaqueline Ryan. Ho deciso poi di lasciare Padova: come dicevo i miei non sono padovani per cui non avevo particolari legami con la città; da sempre piuttosto desideravo trasferirmi nel centro Italia (anche per motivi climatici!)  e così ho fatto, iniziando una nuova avventura in solitaria.

 

Giovanni Corvaja, spilla triangoli

 

C’è un’opera d’arte del passato che è stato motivo di ispirazione?

Quando ero a Londra andavo spesso alla domenica alla National Gallery e fatalmente mi ritrovavo davanti allo stesso quadro, l’Allegoria di Venere del Bronzino, un’opera ricca di dettagli e simbologie da scoprire ogni volta che davvero mi ha sempre affascinato, così il grande vetro di Duchamp alla Tate Gallery: credo che il punto di contatto tra due opere così diverse sia da ritrovare nel fatto che entrambe, estremamente sofisticate nel messaggio, abbiano la capacità di svelare sempre nuovi dettagli, proponendo nuove chiavi interpretative ad ogni lettura.

 

Come sei arrivato al “Vello d’oro”? Una sfida o una naturale evoluzione delle tue ricerche?

Per realizzare il Vello d’oro è stato necessario un lungo processo di ricerca: 12 anni. Dal momento in cui ho iniziato ad assottigliare l’oro in fili sempre più sottili mi sono approcciato al materiale considerandolo alla stregua di una fibra tessile, con tutte le problematiche e le domande del caso, interrogandomi sul ruolo e le funzionalità del tessuto nella vita dell’Uomo. È affascinante trattare l’oro come un filo perché si tratta di una vera e propria deformazione della materia: a partire da un lingottino di pochi centimetri si può arrivare ad un filo di vari chilometri! Ogni atomo è sempre legato all’altro, lavorandolo hai semplicemente allungato le distanze e riposizionato: un processo molto delicato e rispettoso del materiale che lo porta a comportarsi come una fibra. Volevo realizzare qualcosa che fosse anche piacevole al tatto, bello non solo da vedere ma anche da toccare, come la pelliccia degli animali, che trasmette una sensazione di calore e morbidezza, in piena contraddizione con le caratteristiche del metallo. L’Idea della pelliccia d’oro è narrata nel mito Greco e anche in altri miti dell’Asia Minore e riguardava un oggetto – simbolo, di natura divina, non realizzabile da mano umana; si trova in alcuni libri di alchimia come metafora del Sacro Graal, oggetto che ha in sé qualità di ordine e perpetuità che si può ottenere solo attraverso un viaggio di purificazione, come quello compiuto da Giasone o da Percival (non lontano da quelli previsti anche nei testi alchemici). Per giungere al risultato finale anche io ho dovuto percorrere un lungo viaggio (sorride ndr) perché mi sono imbattuto in diverse problematiche tecniche, specialmente tessili, da risolvere; oltretutto io non scrivo nulla, non disegno e quindi ho tutto in mente ma le riflessioni richiedono comunque molto tempo. Di idee ne ho tante, continuamente, e quindi ho bisogno anche di decantarle: le migliori affiorano da sole, una sorta di autoselezione, per cui l’illuminazione può giungerti davvero in qualsiasi momento, così come mi accade spesso.

Giovanni Corvaja, spilla “Mandala”

 

È anche per risolvere queste questioni che ti sei costruito tuoi strumenti?

Sì, questo è un altro prezioso insegnamento di Paolo Maurizio: se ti serve qualcosa fattela! Ovviamente non ha senso costruirsi oggetti di facile reperibilità, ma piuttosto avere la possibilità di crearsi da solo delle “soluzioni” ad hoc: quando ho aperto il mio laboratorio il primo importante investimento è stato un tornio di precisione da attrezzista, è uno strumento che uso molto spesso ancora oggi. Come dicevo ho dovuto riflettere sulle delle questioni specificatamente tessili adeguandole al metallo: ad esempio mi sono costruito un’intrecciatrice per creare una treccia da tre gruppi di fili che consentisse di mantenere la qualità della torcitura (per cui se si rompe un solo filo non si blocca il telaio) e allo stesso tempo la morbidezza. L’ultimo pezzo del puzzle si è sbloccato da solo, improvvisamente! A quel punto mi sono preso due anni sabbatici per concentrarmi esclusivamente alla realizzazione del Vello d’oro, e sono stati un vero tour de force. Il lavoro che stavo facendo quando ho avuto l’intuizione per risolvere l’ultimo problema tecnico non l’ho mai concluso!

 

Con questa tecnica straordinaria hai realizzato una vera e propria collezione di incredibili pezzi unici…

Sì, ho realizzato 5 pezzi, un anello (oggi nel Museo di Arte Moderna di Dallas) un bracciale (che verrà esposto al Museo del Gioiello di Vicenza) un ciondolo, una spilla e un copricapo simile ad un colbacco. Mi piacerebbe che entrassero tutti in collezioni pubbliche, anche perché non credo che mi sarà possibile ripeterli. Ho realizzato questi esemplari per dimostrare che un oggetto mitologico poteva diventare reale. Avevo l’idea, avevo i mezzi: era quasi un obbligo morale realizzarli.  Non si tratta di una “sfida”, quanto di grande passione per la conoscenza e la ricerca: certo richiede sforzo, fatica, impegno…però io mi diverto un mondo!

 

C’è un’opera che è stata più difficile o alla quale sei più affezionato?

Direi il fazzoletto d’oro, perché unisce più elementi propri della mia ricerca: un oggetto che è nato dopo il Vello d’oro e che ha in sé il concetto della pazienza nell’esecuzione tecnica e della totale afunzionalità; inoltre è ambiguo, al tatto è come la seta però è pesante, è liscio ma freddo: è impossibile inserirlo in una categoria, un oggetto quasi magico, in cui uno può vedere quello che vuole. La poesia e la meraviglia, frutto di una lunga ricerca e di una lenta esecuzione.

Giovanni Corvaja, Fazzoletto d’oro

 

 

Hai una prossima sfida da realizzare?

Più conosci la materia più l’orizzonte si sposta: mi sono costruito una camera da vuoto e sono all’inizio di questa nuova ricerca: stanno nascendo nuove opere molto stimolanti, in cui il materiale non è saldato ma cristallizzato.

 

Quale concetto vorresti che fosse letto nelle tue creazioni?

Vorrei che passasse la componente poetica dell’oggetto. Certo il dato tecnico è spesso il primo aspetto che colpisce, ma mi piace che venga percepito il messaggio emozionale che l’oggetto ha in sé, che susciti un moto dell’animo legato alla gioia, alla meraviglia, che parli dell’essere umano: se il gioiello è un’estensione dell’artefice, come penso, vorrei che passasse il senso della poesia che mi accompagnato nel realizzarlo.

About Paola Stroppiana

Paola Stroppiana (Torino, 1974) è storica dell’arte, curatrice d’arte indipendente e organizzatrice di eventi. Si è laureata con lode in Storia dell’Arte Medioevale presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Torino, città dove ha gestito per più di dieci anni una galleria d'arte contemporanea. Collabora con diverse testate per cui scrive di arte e cultura. Si interessa a nuovi percorsi d’indagine come il gioiello d’artista e le ultime tendenze del collezionismo contemporaneo, argomenti sui quali ha tenuto conferenze presso l’Università degli Studi Aldo Moro di Bari, Il Museo Civico di Arte Antica e la Pinacoteca Agnelli di Torino, il Politecnico di Milano.

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